dimanche 22 juin 2008

Casa

Ecco, siamo tornati in simbosi, io succhio il suo latte tiepido e dolce e poco dopo il latte si riforma nel suo seno svuotato. Quando il seno duole perché è troppo duro, la mamma mi attacca al suo capezzolo. Lei ha bisogno di me per far funzionare quella macchina alimentare e io ho bisogno di lei per nutrirmi. Stiamo trovando il ritmo, è già tre giorni che lavoriamo insieme indefessi alla folle impresa della sopravvivenza. Lei ha imparato moltissime cose, è un’esperta ora : sa cambiarmi da sola, senza l’assistenza di quelle orribili infermiere che mi facevano sempre male. Sa lavarmi, pulirmi, cullarmi, ha definitivamente rinunciato alla culla accanto al suo letto, dormo con lei, ogni tanto mi soffoca, mi schiaccia con il suo peso, io mi lamento e lei si sposta con delicatezza. Posso mangiare quando voglio, non ci sono limiti, né orari, mangio se ho fame, mangio se ho paura, se mi sveglio nel buio della notte. Ma siamo ben coordinati : la mia fame cresce con il crescere dei suoi seni, e quando lei non ne può più io sono pronto a succhiare. Siamo di nuovo un solo essere, dopo quella separazione spaventosa e traumatica della nascita. Funzioniamo insieme, il suo corpo e il mio corpo hanno un ritmo solo. Quando piango le sue viscere si contraggono e inviano un comando al cervello : è l’empatia, se io soffro soffre anche lei, ed è per questo che è così attenta, così premurosa ad alleviare ogni mio dolore. Le scelte sono poche, è tutto programmato, non ha che da seguire il suo istinto. Siamo tutti e due perennemente indaffarati in queste giornate lunghe, dove non succede nulla, nient’altro che il ritmo indefesso della vita che decolla, che prende forma, che si organizza in rituali, in dispositivi d’azione che dobbiamo far funzionare insieme.

E’ arrivato il momento di lasciare l’ospedale. La mamma mi veste, si veste, mi deposita in una cesta di vimini tappezzata di un tessuto bianco a piccoli disegni di animali. Mi copre la testa con un minuscolo berrettino blu, mi dice cose dolci, io guardo il suo viso chinato sulla cesta, non mi perde di vista un secondo, è preoccupata di quell’uscita, di quel primo contatto con il mondo esterno. L’aria fuori dall’ospedale è tutta diversa, più spessa e più amara, sento le narici piene d’aria : i rumori sono nuovi e forti, respirare quell’aria è stancante e il contatto con quella brezza nuova basta a farmi addormentare. Dormo nel breve tragitto fino a casa, sballottato dentro alla cesta, la mamma continua a parlarmi : prima tiene la cesta per i due manici laterali, poi non ce la fa più e la prende tra le braccia, per tenermi più vicino a lei, in un istinto di protezione dai pericoli del mondo selvaggio intorno. Chissà se quelle grosse automobili hanno evocato nella sua memoria ancestrale sagome di animali minacciosi. Tutta quella sua premura è antica, è la sapienza di chi conosce i rischi della natura là fuori. Finalmente entriamo nel portone della casa, la mamma sale a piedi i due piani di scale e mette la chiave nella serratura. Quel rumore lo sentirò migliaia di volte in futuro. La porta si apre, è tutto bianco, la mia camera ha il soffitto bianco e una carta da parati a mezza parete bordata di un disegno di famiglie di animali che si incamminano su dune di sabbia. La mia cesta viene posata dentro al mio lettino, ma appena tocca il materasso, io comincio ad urlare. La mamma allora la riprende e mi porta al piano di sopra della casa, dove c’è il salotto. Un odore forte di fiori mi invade di nuovo le narici. La mamma posa la cesta sul divano. E’ felice di essere a casa. Lo posso sentire. Mette della musica e la sua felicità riempie tutta la casa. Sento le sensazioni della mamma, sento che la casa è pulita, grande, è piena di luce e che la riempie di gioia. Arrivano persone che mi guardano mi parlano e poi si distraggono, ma i rumori sono tutti più lievi, più nostri. La mamma mi prende in braccio delicatamente, mi posa una delle sue lunghissime mani sulla pancia e mi culla a pancia in giù, reggendomi la testa con l’avanbraccio. Vedo le righe del tappeto per terra, mi piacciono le righe, le posso distinguere bene e sono belle da guardare. Poi mi rigira, vedo una macchia di colore sul muro bianco, lo spazio mi avvolge, non mi aggredisce più come in ospedale. Di nuovo nel mio lettino, la mamma mi fa girare sopra la testa un carillon con quattro animaletti colorati. Quel movimento circolare mi incanta, è come se vedessi solo il movimento e non gli animali appesi, sono attirato dal moto, dalle traiettorie, dalle righe : il mio mondo è euclideo e newtoniano : linee e movimenti fanno accadere qualcosa nel mio cervello, lo fanno risuonare, funzionare. Il resto è confuso, senza nome, solo la mamma e il suo latte hanno un nome, so desiderare solo loro, so riconoscere solo loro, urlo per chiedere più mamma o più latte, il resto degli oggetti mi lascia per il momento totalmente indifferente.

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