dimanche 22 juin 2008

Viaggio

Si parte. Guardo la mamma agitarsi per la casa, tra scatoloni aperti e valigie. Osservo gli oggetti familiari e tutto è fuori posto. Il mondo delle cose intorno a me, il primo mondo a cui ho cominciato a dare un senso sta collassando poco a poco dentro scatole e cartoni. Posso muovermi ora, ho 8 mesi, riesco a strisciare dappertutto. Guardo curioso nelle scatole, gli scaffali sono vuoti, quella realtà, quelle file di colori lungo le pareti, non esisteranno mai più per me. La mamma è agitata, cammina avanti e indietro, piango, sono frustrato di strisciare come un animale, la chiamo in continuazione, non so cosa voglio di preciso, voglio soprattutto la sua attenzione direi, non sopporto di vederla così distratta, così focalizzata su altre cose. Lei si innervosisce, i miei richiami sono chiaramente un’interferenza in questo momento, la sua testa è focalizzata su altro, i suoi occhi seguono gli oggetti che cascano uno a uno nelle scatole e la mente è occupata nell’organizzare il seguito delle operazioni. Provo a richiamarla con il migliore dei miei repertori, ho imparato anche io ad usare labbra, denti e gengive per produrre quei suoni preziosi. Le sciorino l’intera gamma sonora, so anche variare l’intonazione, faccio come fa lei quando è gentile o quando mi parla con aria interrogativa, poi cambio, faccio un vocione, insomma mi esercito a capire che cosa le interessa di più. La mamma si limita a mugugnare qualcosa ma non cambia obbiettivo. Una volta impacchettati cartoni e valigie, inizia un eroico andirivieni dalla porta con le braccia cariche di mercanzia, io protesto, non mi piace essere lasciato solo in questa camera mezza spoglia, mio padre è via e quella deliziosa signorina dalla voce acuta che ogni tanto si occupa di me è stata ingaggiata dalla mamma per sorvegliare l’automobile davanti a casa. Che follia, mi lasciano solo : ma io non sono più una specie di vegetale che resta dove lo posi. So muovermi e non mi lasceranno così facilmente qui solo ad annoiarmi. Senza esitazione, comincio a gattonare veloce, attraverso l’uscio di casa e precipito per le scale rotolando come una palla. Mi ritrovo ai piedi di mia madre che mi guarda a bocca aperta, senza riuscire ad emettere suono. Almeno, per qualche secondo. Ed era meglio così, perché quando ritrova la parola, si lascia andare a un grido disperato. Chiama Annie, la signorina con la voce acuta, le spiega affannata l’accaduto, mi guardano come una bestia rara, mi toccano la testa, non capisco se la mamma sia preoccupata o minacciosa, credo che ci sia un mélange di tutti e due, credo che d’istinto sappia benissimo che non mi sono fatto nulla, ma vuole farmela pagare facendosi vedere distrutta dalla preoccupazione per colpa mia. Non è stata una grande idea, lo ammetto. E anche se non piango, devo dire che mi sento piuttosto ammaccato. Vengo depositato rapidamente sul seggiolino in automobile, lì possono legarmi, lo conosco bene il trucco, così sono sicuri che non posso combinare altri disastri. Sotto la stretta sorveglianza di Annie, resto immobile nel seggiolino, la testa mi fa un po’ male effettivamente, e mi duole un piede. Infine la mamma si siede al volante, dopo aver chiuso il baule con uno schianto che mi ha fatto sussultare. Si parte. Adoro questo momento, il mondo scorre veloce dal finestrino, il seggiolino è comodo, la mamma vicina e non c’è vento che entra nelle orecchie o nella faccia. L’auto ha qualche piccolo sussulto a volte, dovuto alla pavimentazione.

Cibo

Le mie mani sono più mobili ora : posso afferrare oggetti, portarli alla bocca, prendermi i piedi. Metto sovente le mani in bocca dopo aver toccato in giro, assaggio il mondo, solo così posso uscire dal mio stato contemplativo, mangiandomi il mondo : bocca e mani si muovono, mi fanno muovere sempre di più, tra poco sento che comincerà un’altra vita dedicata al movimento : il mondo non verrà più a me, sono io che dovrò andare a cercarmelo, a procacciarmi esperienze. La mamma ha cominciato a farmi assaggiare nuovi sapori : il primo gusto diverso dal suo latte è una pera cotta e frullata : i granuli della pera provocano una sensazione bizzarra, come se della sabbia si mescolasse a qualcosa dolce e acquoso sulla mia lingua. Il primo istinto è tirare fuori la lingua, non so bene come fare, ho solo succhiato finora e non so quali movimenti devo fare per deglutire quell’acquolina zuccherata e consistente che mi ritrovo in bocca. Tiro la lingua, ma tutto esce, la ritraggo, mi aiuto con le mani, metto le mani in bocca, questo mi aiuta, perché se mi succhio una o due dita riuscirò a deglutire alla vecchia maniera. Ma la mamma non è d’accordo, cerca di togliermi le mani di bocca, non capisco perché, riprova a infilarmi la pera frullata in bocca con un cucchiaino freddo e sgradevole, il cucchiaio mi soffoca, faccio una smorfia di disgusto, sputo tutto. Di nuovo non riesco a farmi capire, non è la pera che non mi piace, è che non so mangiarla, quel cucchiaio è troppo duro e freddo e quando mi entra in bocca mi fa male. Se anche lei si aiutasse con le mani, mi desse da mangiare dalle sue mani, come le sue antenate, forse sarebbe tutto più semplice, forse il contatto delle mie labbra e della mia lingua con il palmo dolce e levigato della sua mano mi metterebbe nella migliore disposizione possibile per deglutire quella nuova sostanza. Ma c’è qualcosa che interferisce qui, ho capito già che spesso qualcosa si mette in mezzo nei nostri rapporti naturali, un non so che d’artificiale, che non viene da lei, viene da fuori, da regole e norme che non ha dettato la natura, e che rendono estremamente scomode le nostre interazioni. Come quello stare seduta quando mi allatta, o lavarmi in quell’assurda bacinella di plastica, a rischio di farmi morire annegato, quei vestiti complicati che mi mette addosso, quelle cinghie a cui mi attacca ogni volta che mi trasporta che quasi mi decapitano, quando sarebbe così più semplice e sicuro tenermi tra le sue braccia o solo coricato in un pezzo di stoffa allacciato al suo dorso. La mamma mi dà un cucchiaino di plastica rossa e gialla con cui esercitarmi a deglutire. Lo guardo con interesse, me lo metto in bocca in continuazione, lo agito davanti a me. E’ un gran divertimento quando è vuoto: solo quando è pieno di cibo diventa intollerabile. Finalmente la mamma usa l’intuizione a scapito delle regole che sta pescando non so da quale fonte di saggezza ricevuta : la riconosco ormai quando fa da sé e quando si mette a eseguire qualche schemino tramandato da bizzarre tradizioni mal ricostruite. Quando lavora con l’intuizione è geniale, perfetta, si muove leggera come una gatta sapiente. E’ selvaggia e saggia insieme. Quando inizia i suoi balletti istituzionali è goffa e severa, piena di ansia, senza alcuna grazia e tipicamente sbaglia tutto. Contro ogni regola della buona puericultura, la mamma afferra infine un melone, ne taglia un pezzo abbastanza grosso perché io lo possa prendere tra le mani, e mi lascia fare il resto : io lo stringo subito, entusiasta del colore arancio leggero, della forma allungata e della consistenza viscida. Mi scivola avanti indietro nella mano, un vero piacere, lo porto verso la bocca e comincio a succhiarlo, mmmm, dolcissimo e liscio, si scioglie sulle mie gengive nude. Le labbra succhiano il succo che cola dappertutto e la lingua si mette in movimento per deglutire i pezzetti che si staccano. Ho imparato a deglutire qualcosa che non è il suo latte, ora il mondo è tutto da mangiare, masticare, catturare. Sono meno filosofo e più animale oggi : là fuori ci sono mille piaceri che bisogna andare a prendersi. E’ finita la calma, qui bisogna muoversi, bisogna smettere di riflettere e cominciare a investire energie cerebrali nella più animale delle funzioni : il movimento.

Idee

Ho quattro mesi. So guardare ora, riconoscere i movimenti, sorridere in risposta ai sorrisi, e tenere in mano qualche piccolo ninnolo. Non posso muovermi da solo ancora, la mia vita è tutta nella mente: ho la saggezza di un vecchio che, muovendosi sempre meno, osserva il mondo con distacco e precisione. Chi ha detto che i bambini sono immersi in un brodo primordiale di sensazioni e movimento ? Il movimento è scarso, se non quando sono trasportato, e le sensazioni noiose, sempre le stesse : la fame, il seno della mamma, il latte, la luce del giorno, il buio, mi sono abituato. Il mondo dei fatti bruti, quello che mi entra da orecchie, occhi, naso e bocca, è già dato per scontato, è la fuori e mi sorprende molto poco. Il mondo delle idee invece, di come le idee si formano nel mio cervello, è ricchissimo e meraviglioso : un oggetto ne colpisce un altro e, hop, quell’altro comincia a muoversi, questo sì che è interessante, le cose sono legate tra di loro dalle idee che io ho nel cervello, le cose sono grandi e piccole, prima e dopo, animate e inanimate, parlanti e mute. Le parole anche sono piene di leggi, di regolarità che io so capire. Quando parla la mamma ora so che dopo un « aa » ci sarà un qualche movimento di labbra o di lingua che interrompe il suono, una consonante per intenderci. Tutto questo eccita terribilmente il mio cervello che lavora indefesso : approfittando dell’inerzia del mio corpo, la mente ha tempo per registrare, classificare, collegare e sviluppare miriadi di connessioni tra idee e cose con tutta l’energia che risparmia a dare giusto pochi comandi ai muscoli. Sono come Visnù che allungato su una foglia di loto, pensa il mondo. Forse è qui il segreto dell’intelligenza umana, in questa noia e inazione dei primi mesi. Sono un filosofo prima di essere un uomo per intero : ancora prima di essere in piedi, di essere il famoso bipede dalle mani libere che tanto domina la natura, sono un pensatore inerte e solitario. Ho problemi metafisici estremamente sottili : quelle due bottiglie sono uguali sì, ma anche la bottiglia che ho visto prima e che è riapparsa dopo è uguale a sé stessa. Le idee sono come una colla che dà senso al mondo : le esperienze sono limitate, le idee no. E’ la vita ideale, mamma, latte e metafisica, piango poco, sorrido sempre, gli occhi si muovono veloci dappertutto, l’azione è solo nella mente. Mi sorprende quando il mondo mi resiste, quando la colla del mio pensiero non riesce a tenere insieme gli eventi : quando un movimento che dovrebbe procedere linearmente cambia ritmo o si interrompe bruscamente : mi interessano le cose che si accendono e si spengono, che prima ci sono e poi scompaiono, mi chiedo se ci sono veramente anche quando sono spente, se persistono o se si annullano. Il mondo è incerto intorno, ho bisogno di qualche àncora essenziale, ho bisogno di persistenza, di parole, di oggetti, di calore umano, ho bisogno di sapere che c’è qualcosa là fuori sempre e comunque, anche quando tutto è spento, quando il calore della mamma è lontano, quando gli oggetti si deformano spostandosi, mutano o scompaiono. Solo la mia mente che lavora velocissima mi dà quella certezza, e insieme la mia bocca, che succhia avida il latte della mamma e mi fa sentire connesso al mondo buono dentro e fuori il suo corpo.

Parole

La voce di mia madre è roca e gentile. Mi solleva, mi tiene davanti a sé, mi guarda. Vedo la sua bocca muoversi lentamente ed emettere dei suoni, dei « pa », dei « to », dei « ma », dei « ci », mi piacciono in modo particolare i « ci », mi piace la dolcezza di quel suono. Con le sue labbra rompe il flusso sonoro che esce dal suo corpo come un lungo respiro e crea quei suoni. Io la guardo, la pelle del suo viso si muove in mille pieghe, ogni suono è un’espressione : può bloccare l’aria chiudendo le labbra, oppure mettendo la lingua sulla punta dei denti, o sul palato : io sento la sua voce uscire dalla cassa toracica, è come se quel flusso vitale continuo, ininterrotto che risuona da sempre dentro di lei debba spaccarsi in pezzi molteplici per avere senso, per assumere un senso nuovo che mi è ancora nascosto, ma che ha a che fare con le cose intorno a me, con gli oggetti che quei suoni possono nominare, possono richiamare a sé. Mi guarda intensamente, i suoi occhi sono tutti tesi a farmi cogliere un senso in quei suoni, le articolazioni sono lunghe, quasi ridicole, la bocca si allarga in un « aaaaaa » poi si allunga in un « ooooo », poi ancora qualcosa tra il ghigno e il sorriso produce un « iiii ». Il suo sguardo è parlante, come se mi dicesse con gli occhi che cosa significano quelle parole. Sono rapito dal suo sguardo, lo seguo come incantato : le sue pupille sono due punti mobili a cui il mio sguardo si aggrappa, due piccole calamite nere da cui non riesco più a staccarmi : è lì il senso, è lì la spiegazione di tutto, di questa confusione di cose intorno a me : se seguirò il suo sguardo lei mi saprà indicare quello che devo sapere, mi insegnerà a dare senso alle parole, è il suo sguardo che connette le parole alle cose.

La voce di mio padre è diversa. E’ calda e profonda. Le espressioni del suo viso non assomigliano a quelle della mamma : la bocca non si allarga in quel modo ridicolo, tutto resta all’interno delle sue labbra, piccoli movimenti dei muscoli delle guance bastano a provocare cambiamenti radicali nei suoni. Sento dei « cr » dei « tr », dei « ch », i suoni si formano in gola ed escono timidi dalle sue labbra quasi immobili. Ha delle grandi labbra mio padre, una bocca grande e generosa e insieme pudica e riservata, senza le smorfie eccessive che vedo dipingersi sul viso della mamma. Le mie orecchie si riempiono di suoni diversi, di suoni incompatibili tra di loro. Sento che i suoni che mio padre produce non sono gli stessi di quelli di mia madre, che ci saranno due suoni per ogni cosa, per ogni sfumatura. Mi piace ascoltarlo, adoro quella bassa cantilena, a volte canta, la voce si fa più varia, sale e scende. Guardo le rughe sulle sue guance, i segni intorno agli occhi. La sua faccia è antica, scolpita in una pietra lieve, i suoi capelli bianchi e brillanti. Le sue mani sono piccole, dure e calde. Mi regge con forza e grazia insieme, c’è una grazia nei suoi modi bruschi e gentili, il suo naso all’insù ricorda un corno di rinoceronte, forte e mite, un colosso erbivoro che bruca l’erba della savana. E’ chiaro mio padre, la sua pelle è quasi trasparente, la sua testa è avvolta in un fascio luminoso, è pieno di luce mio padre e mi riempie di energia. E’ il genere di grossa creatura da cui non ci si vorrebbe staccare mai più, trasmette la sua luce, mi sento come le falene che inevitabilmente si fanno trascinare verso la luce violastra che le incenerirà.

Notte

E’ la prima notte che dormo da solo. La stanza è buia, e non sento il respiro della mamma, che si è coricata nella camera accanto con mio padre. Perché è così distante ? Il suo respiro a me serve per dormire, per darmi il ritmo. Urlo. La mamma corre sbattendo le porte, terrorizzata. Mi prende tra le braccia, mi dà subito il seno. Io non ho fame, lei insiste, mi fa ingoiare il suo seno quasi a forza. Mi dibatto, sputo. Lei è stanchissima, non riesce quasi a tenermi in braccio. Insiste ancora un po’ con il latte, ma dato il mio rifiuto netto, se ne ritorna a dormire. Ma io la voglio vicino a me. Urlo di nuovo, piango senza sosta, il pianto diventa meccanico, è uno stato di alterazione che non controllo più e come una bambola parlante a cui si è inceppato il disco ripeto indefesso quel gemito lievemente articolato : lo stesso verso con due o tre pause per riprendere fiato : ha un effetto calmante su di me, mi riempie i polmoni, la bocca, riempie la mia stanza, la casa, e sento dentro di me che fa succedere qualcosa nel corpo di mia madre. E’ un richiamo che la mette in moto, non può fermarsi, l’unico modo di fermarsi sarebbe chiudere le porte e non ascoltarmi, ma se mi sente è finita, i miei gemiti sono fatti per farla muovere, per agitare le sue viscere e il suo latte, non può restare distesa davanti a quell’urlo, e difatti la vedo ricomparire, sempre più stanca ed affannata : non ha le idee chiare neanche lei su quello che si debba fare in questi casi. Mi prende, poi mi riposa e mi lascia piangere un po’. Poi di nuovo mi riprende. Mi tiene tra le braccia, mi fa fare un giro della casa, la mia testa è appoggiata sulla sua spalla, vado avanti a piangere a più non posso, non posso smettere, è un temporale che bisogna far passare da solo, non serve cercare soluzioni, cambiare posizione, cambiarmi ancora una volta, io non posso fermare questo pianto fino a quando non si fermerà da solo. La mamma è esausta, è arrabbiata, i suoi gesti si fanno bruschi, la meccanicità del mio pianto la esaspera, anche i suoi movimenti si fanno meccanici, mi culla senza amore, avanti e indietro, sperando che finalmente la smetta. Sento che è pericolosa in questo stato, il mio gemito animale è disumano per lei, il contatto cosciente tra di noi è rotto, è come se il mio pianto parlasse direttamente alle sue viscere e ai suoi muscoli, l’obbligasse ad agire senza che le nostre due persone si riconoscano più. E’ così difficile per lei gestire il legame folle, biologico, inscindibile tra di noi e insieme l’amore di due esseri umani, di due persone che si sono incontrate la prima volta qualche giorno fa. Potrebbe uccidermi in questo momento, potrebbe lanciarmi giù dalla finestra semplicemente ampliando il movimento delle sue braccia che sta ripetendo da ore per calmarmi. Non sono più suo figlio, sono un pezzo agitato di natura che la stravolge, la obbliga ad agire, le consuma tutte le energie. La notte è allucinante, piena di fantasmi, di ansia, ho paura di non sopravvivere la notte, ho paura che mia madre, feroce e assonnata, mi possa uccidere, ho paura di quel silenzio, del freddo della mia camera, di quell’uomo che non conosco ancora bene che e si tiene vicino a sé mia madre. Finalmente sento che la luce del giorno sta ritornando, sento il canto di un uccello entrare dalla finestra e di colpo interrompo la mia cantilena e cado in un sonno profondo. Ricomincia la creazione, il canto degli uccelli solidifica di nuovo la realtà del giorno che la notte aveva liquefatto : esisto da troppo poco, è per questo che ho così paura che l’esistenza scompaia di nuovo, che l’enorme sforzo di creazione dal nulla, di dare luce, giorno, acqua, aria, terra si ritragga al contatto delle tenebre. I miei occhi si chiudono pesanti, ma filtra dalle palpebre la luce del giorno. Osservo da dietro le mie palpebre chiuse un colore dorato, macchiato qua e là dalle impronte delle ombre della notte. Il mondo è ancora qui. Io sono ancora qui. Vittoria.

Casa

Ecco, siamo tornati in simbosi, io succhio il suo latte tiepido e dolce e poco dopo il latte si riforma nel suo seno svuotato. Quando il seno duole perché è troppo duro, la mamma mi attacca al suo capezzolo. Lei ha bisogno di me per far funzionare quella macchina alimentare e io ho bisogno di lei per nutrirmi. Stiamo trovando il ritmo, è già tre giorni che lavoriamo insieme indefessi alla folle impresa della sopravvivenza. Lei ha imparato moltissime cose, è un’esperta ora : sa cambiarmi da sola, senza l’assistenza di quelle orribili infermiere che mi facevano sempre male. Sa lavarmi, pulirmi, cullarmi, ha definitivamente rinunciato alla culla accanto al suo letto, dormo con lei, ogni tanto mi soffoca, mi schiaccia con il suo peso, io mi lamento e lei si sposta con delicatezza. Posso mangiare quando voglio, non ci sono limiti, né orari, mangio se ho fame, mangio se ho paura, se mi sveglio nel buio della notte. Ma siamo ben coordinati : la mia fame cresce con il crescere dei suoi seni, e quando lei non ne può più io sono pronto a succhiare. Siamo di nuovo un solo essere, dopo quella separazione spaventosa e traumatica della nascita. Funzioniamo insieme, il suo corpo e il mio corpo hanno un ritmo solo. Quando piango le sue viscere si contraggono e inviano un comando al cervello : è l’empatia, se io soffro soffre anche lei, ed è per questo che è così attenta, così premurosa ad alleviare ogni mio dolore. Le scelte sono poche, è tutto programmato, non ha che da seguire il suo istinto. Siamo tutti e due perennemente indaffarati in queste giornate lunghe, dove non succede nulla, nient’altro che il ritmo indefesso della vita che decolla, che prende forma, che si organizza in rituali, in dispositivi d’azione che dobbiamo far funzionare insieme.

E’ arrivato il momento di lasciare l’ospedale. La mamma mi veste, si veste, mi deposita in una cesta di vimini tappezzata di un tessuto bianco a piccoli disegni di animali. Mi copre la testa con un minuscolo berrettino blu, mi dice cose dolci, io guardo il suo viso chinato sulla cesta, non mi perde di vista un secondo, è preoccupata di quell’uscita, di quel primo contatto con il mondo esterno. L’aria fuori dall’ospedale è tutta diversa, più spessa e più amara, sento le narici piene d’aria : i rumori sono nuovi e forti, respirare quell’aria è stancante e il contatto con quella brezza nuova basta a farmi addormentare. Dormo nel breve tragitto fino a casa, sballottato dentro alla cesta, la mamma continua a parlarmi : prima tiene la cesta per i due manici laterali, poi non ce la fa più e la prende tra le braccia, per tenermi più vicino a lei, in un istinto di protezione dai pericoli del mondo selvaggio intorno. Chissà se quelle grosse automobili hanno evocato nella sua memoria ancestrale sagome di animali minacciosi. Tutta quella sua premura è antica, è la sapienza di chi conosce i rischi della natura là fuori. Finalmente entriamo nel portone della casa, la mamma sale a piedi i due piani di scale e mette la chiave nella serratura. Quel rumore lo sentirò migliaia di volte in futuro. La porta si apre, è tutto bianco, la mia camera ha il soffitto bianco e una carta da parati a mezza parete bordata di un disegno di famiglie di animali che si incamminano su dune di sabbia. La mia cesta viene posata dentro al mio lettino, ma appena tocca il materasso, io comincio ad urlare. La mamma allora la riprende e mi porta al piano di sopra della casa, dove c’è il salotto. Un odore forte di fiori mi invade di nuovo le narici. La mamma posa la cesta sul divano. E’ felice di essere a casa. Lo posso sentire. Mette della musica e la sua felicità riempie tutta la casa. Sento le sensazioni della mamma, sento che la casa è pulita, grande, è piena di luce e che la riempie di gioia. Arrivano persone che mi guardano mi parlano e poi si distraggono, ma i rumori sono tutti più lievi, più nostri. La mamma mi prende in braccio delicatamente, mi posa una delle sue lunghissime mani sulla pancia e mi culla a pancia in giù, reggendomi la testa con l’avanbraccio. Vedo le righe del tappeto per terra, mi piacciono le righe, le posso distinguere bene e sono belle da guardare. Poi mi rigira, vedo una macchia di colore sul muro bianco, lo spazio mi avvolge, non mi aggredisce più come in ospedale. Di nuovo nel mio lettino, la mamma mi fa girare sopra la testa un carillon con quattro animaletti colorati. Quel movimento circolare mi incanta, è come se vedessi solo il movimento e non gli animali appesi, sono attirato dal moto, dalle traiettorie, dalle righe : il mio mondo è euclideo e newtoniano : linee e movimenti fanno accadere qualcosa nel mio cervello, lo fanno risuonare, funzionare. Il resto è confuso, senza nome, solo la mamma e il suo latte hanno un nome, so desiderare solo loro, so riconoscere solo loro, urlo per chiedere più mamma o più latte, il resto degli oggetti mi lascia per il momento totalmente indifferente.

Latte

Ho due giorni e una nausea insopportabile, la mia pancia brucia e si contorce, la mia bocca è sempre arsa, l’aria che respiro mi secca la bocca. Ha ragione Hobbes: la vita umana è solitaria, miserabile, pericolosa, animale e breve: non sopravviverò, lo sento, è troppo difficile, giro la testa in cerca di salvezza, ma tutto quello che incontro è l’enorme seno di mia madre, una montagna rosa con una grossa protuberanza violacea, spessa più di un dito. La mamma mi mette in bocca il capezzolo, i miei istinti si eccitano, muovo freneticamente la testa e con un gesto ripetuto della bocca cerco di catturare quell’affare, mi attacco, poi lo riperdo, il movimento è quello, ma è difficile, non funziona sempre, tutto freme nel mio corpo ogni volta che riesco ad attaccarmi, e appena mi stacco il mio corpo si innervosisce, si irriggidisce, è una frustrazione continua. Riesco per qualche secondo a restare attaccato, le mie mani reggono il seno immenso di mia madre e i miei piedi piccolissimi le fanno una pressione lieve sulla pancia, un movimento lento, animale, un piede dopo l’altro, come un massaggio. Esce finalmente un liquido denso, giallastro, nauseabondo. Lo bevo voracemente, la mamma piange, si lamenta. Il colostro cola nella mia bocca, la nausea aumenta, lascio la presa, urlo a più non posso. Urliamo tutti e due, la mamma ha male. Riprendo il suo seno avidamente, non so cosa voglio, c’è un sapore nuovo, di sangue, il capezzolo è pieno di tagli, le fa male. Lo mordo forte con le mie gengive, lei urla, mi stacca, mi mette nella piccola culla di plastica. Io urlo disperato, lei si allontana, urlo ancora più forte, la voglio qui, subito, voglio quel capezzolo insanguinato, anche se mi dà la nausea, ma mi devo attaccare, mi devo attaccare a tutti i costi, c’è qualcosa che deve succedere nel mio corpo perché divenga realmente umano, e ho bisogno di quel capezzolo. La mamma torna, piange si dispera, avvicina il suo capezzolo alla mia bocca poi lo ritrae con un gesto brusco. Io mi arrabbio, sono disperato anche io, non so come salvarmi da questo malessere totale. La mamma mette una crema sul suo seno, il sapore è orribile, amaro, riprova a mettermelo nella bocca, mi sembra di soffocare, ma mi riesco ad attaccare questa volta, sento il suo corpo fremere di dolore, la sento gemere, piagnucolare, ma io non mi stacco, ho preso il ritmo giusto, succhio con tutte le mie forze, il liquido denso cola, cola e finalmente qualcosa di umano succede, la mia pancia si rilassa e una sensazione calda mi invade in mezzo alle gambe. E’ tutto caldo, molle e bagnato lì in mezzo, ah, mi sento molto meglio ora, ho prodotto le mie prime feci, ora tutto scorre, entra ed esce, ho preso vita, questa è la vita. E’ la prima tregua dal disagio continuo che provo da quando ho cominciato a vivere, e questo senso di riposo, questo primo momento in cui posso allentare la presa nella lotta per la sopravvivenza mi rilassa. Vengo spogliato, pulito con dell’acqua freddissima, rivoltato, cambiato, ancora qualche minuto di sofferenza e poi dormirò beato, questa volta davvero beato, sicuro di aver fatto il mio dovere di essere umano. Ormai la macchina si è messa a funzionare, sono salvo, ce la farò.

Il mio primo successo ha provocato un miracolo anche nel corpo della mamma. Dormo una notte lunghissima e tranquilla, estenuato da quei due giorni di battaglia e la mattina mi sveglio tra le braccia di mia madre che ha un odore completamente nuovo: un odore dolciastro e terribilmente sensuale, i suoi seni sono tutti diversi, ancora più gonfi e duri come il marmo, dai capezzoli cola un liquido nuovo, biancastro, invitante: è il latte, sì è arrivato il latte, sono arrivati fiumi di latte, come la manna bianca dal cielo del deserto, tutto per me, a toccarle un seno appena appena la mamma spruzza latte da tutte le parti, che gioia, è il mio latte, il mio nutrimento che mi sazierà a volontà. Provo ad attaccarmi voracemente, ma il seno è ancora più difficile da prendere: è durissimo, levigato come una sfera, non c’è un punto dove afferrarlo. La mamma mi aiuta, regge lei il suo seno pesante, lo preme, lo spreme quasi, e gli zampilli di latte escono da più buchi del suo capezzolo, dritti nella mia bocca, una meraviglia, un sapore buonissimo, nettare e ambrosia, che delizia.