dimanche 22 juin 2008

Nascita

Sono nato in novembre. Dalla finestra della sala parto dell’ospedale a pochi passi da casa, dove mia madre è giunta a piedi verso le due della mattina, entra un sole pallido nel primo pomeriggio della mia esistenza. La prima sensazione non è piacevole. C’è buio dappertutto, io non respiro quasi e d’un tratto qualcosa di freddo mi avvolge la testa, preme sulle tempie, il dolore è insopportabile, due fitte violente mi invadono il cervello. Qualcosa mi tira, mi tirano il collo, la mia testa si contorce ma è bloccata dall’oggetto di metallo che è stato introdotto nel ventre di mia madre. Voglio che mi liberino la testa, sento la pressione gelida del metallo del forcipe, esco dalla pancia di mia madre urlando dal dolore. Sono in alto, senza peso, ancora attaccato al cordone ombelicale. Urlo a più non posso, fa un freddo terribile, ogni molecola d’aria è uno spillo che mi entra nella pelle e quel sole autunnale mi acceca. Finalmente mi posano sul petto gonfio di mia madre. E’ calda, è stanca anche lei, respira forte, sento il suo respiro che fa muovere avanti e indietro la sua cassa toracica, sento quel ritmo che conosco bene, il cuore che batte, tu-tum, un rumore che conosco già da molto tempo. Il suo petto è bagnato, piange la mamma, e io la mordo dappertutto, in un riflesso istintivo in cerca di cibo. Sento il gusto salato delle sue lacrime e del sudore, il suo odore è forte e acre, la mia faccia è completamente schiacciata sul suo petto, vorrei restare così per sempre, a strofinare il naso e la bocca sulla sua pelle, a confondere la mia saliva con le sue lacrime, ma no, mi portano via dopo pochi minuti, qualcuno mi prende per la vita, mi stringe troppo forte, mi fa male, mi portano in un’altra stanza, al freddo, mi immergono in un’acqua gelida e senza odore, poi la faccia di mio padre per la prima volta davanti a me: mi tira la lingua, gli tiro la lingua, mi solleva tenendomi sotto le ascelle e mi fa fare qualche passo, io muovo le gambe come se potessi già camminare, un istinto antico di figlio di una specie nomade mi fa muovere un piede e poi l’altro. Ancora movimenti, mani che mi toccano, qualcuno mi avvolge in un panno ruvido, non ne posso più, ho freddo, mi sento solo, voglio ritornare a posare il naso sulla mia mamma calda, non mi piace quel posto, voglio il suo odore, il suo respiro, ecco finalmente, mi posano su di lei, schiaccio subito la faccia sul suo petto, la sento ora, lei mette il suo dito nel palmo della mia mano e ancora per istinto io chiudo la mia mano e stringo forte il suo dito come una piccola scimmia che non vuole mollare la presa preziosa di qualche pelo della pelliccia della mamma a cui è attaccata, unica speranza di sopravvivenza.

Sono antico, sono sempre esistito, tutti i miei movimenti, i miei desideri sono dettati ora solo dalla storia della mia specie, urlo per mangiare, urlo per il freddo, urlo per essere preso nelle braccia della mia mamma, sono caparbio, cattivo e severo, sono l’erede di quei bambini cavernicoli che hanno urlato più forte degli altri, che non si sono fatti dimenticare nelle caverne, mentre le loro mamme stanche e assonnate impacchettavano fagotti di pellicce e pochi utensili per ripartire nell’eterno viaggio paleolitico. E insieme sono nuovo, non sono mai esistito, tutto mi spaventa, quei rumori bruschi, quelle superfici lucide e fredde, quelle voci forti, gli eco nella stanza, i passi, il riflesso delle luci nella mia piccola culla di plastica trasparente, non mi piace stare là dentro, appena la mamma mi posa urlo con tutte le mie forze, lei non resiste, mi riprende, ho vinto io e ora mi tiene vicino, mi schiaccia con il suo peso, è enorme questa mamma, i seni giganteschi, le spalle, le mani sono lunghe come tutto il mio corpo. E’ tutto confuso, il mio sonno è leggerissimo, mi sveglio, non so cosa ho intorno, vedo sul letto, di notte, un piccolo animale, una dònnola, ma fugge via immediatamente. L’ho vista anche appena uscito dal ventre di mia madre, era accucciata per terra, poi è passata veloce e se n’è andata. Dicono che è l’animale che protegge la nascita, è passata di lì allora per proteggermi, o passa sempre di lì quando nasce un bambino vivo. Insieme alle dònnole sogno di ruggiti di animali, di leoni feroci, di ghiacci eterni. Sogno di terremoti che ingoiano intere foreste e di cani rabbiosi che mangiano brandelli di un animale squartato. Sento dolore dappertutto, ho mal di pancia, la mia pancia si muove in continuazione, devo digerire questo mondo enorme e freddo che mi colpisce i sensi. Tutto è duro, violento, immediato, tranne la mia mamma calda e odorosa. Mi addormento di colpo, mi sveglio di soprassalto. Le tempie mi fanno ancora male per il forcipe. Ho male alla testa, come se una morsa mi stringesse il cranio. Mi mettono un pannolino che mi stringe la vita e sopra a quello un vestitino, non sento più il mio corpo, è come se mi avessero ingessato, con tutte quelle cose addosso non sento più la pelle della mia mamma quando mi tiene tra le braccia, solo la mia bocca e le mie mani possono sentirla. Non me la togliete, per favore, ho bisogno di toccarla, ho un bisogno disperato di sentire il suo odore, lasciatemela vicina, non chiedo altro che aver vicino a me quest’enorme pezzo di mondo buono, di pelle e carne nuda tutta per me. Ha i capelli scuri la mia mamma, sento i suoi capelli che mi fanno il solletico quando mette il mio muso vicino alla sua faccia, strofino il mio naso sui capelli appiccicati al collo sudato, che profumo meraviglioso, che mescolanza di capelli e sudore, lì sto bene, mi dà un po’ la nausea, ma sto bene, lì con il muso schiacciato sul suo collo non mi succederà nulla di male. E dormo di nuovo, dormo, dormo, lei parla, i suoni sono belli, distinti, dei “pah”, dei “toh”, dei “ci”, mi calmano quei suoni, come se fossero familiari, come se li conoscessi da sempre. Sono i suoni umani, non li devo imparare, li devo solo riconoscere, sono un umano con la sua mamma, dice la Bibbia che il primo uomo non aveva la mamma, come è possibile, poveretto, come ha potuto imparare qualcosa, avere pace, anche nell’Eden, cos’è un Eden senza questa grossa creatura parlante e benevola che mi tiene vicino a sé.

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